L'iconografia nel periodo medievale bizantino

 Articolo del servo di Dio Davide Regano. 


Cristo Pantocratore, Monastero di Santa Caterina del Sinai, XII secolo.

1. La pittura del periodo medio-bizantino (IX – XII sec.)

Con il regno dell'imperatore Costantino V (741-775 d.C.), detto “il copronimo” (letteralmente “nome di sterco”) ebbe inizio il periodo iconoclasta, caratterizzato dalla feroce persecuzione degli iconoduli, ovvero coloro che praticavano la venerazione delle icone. Venne stabilito che le sante immagini dovessero essere distrutte o, nel caso di affreschi e mosaici, coperte con la calce e ne fu vietata la produzione. Durissima fu la persecuzione imperiale contro i monasteri, i principali centri di produzione di opere iconografiche. Solo nel 843 venne ristabilita definitivamente la venerazione delle icone e questo segnò l'inizio di una nuova era. Con rinnovata energia ci si accinse alla grande opera di ridecorare le chiese spoglie. Un aspetto positivo dell'iconoclastia fu che condusse alla formulazione teologica dell'icona. La parata della vittoria iniziò a Costantinopoli, la città sulle rive del Bosforo che si sviluppò in una metropoli nella quale la magnificenza venne elevata a virtù ed era all’ordine del giorno.

Gli imperatori detenevano energicamente il potere e la città godette di grande prosperità; tuttavia ne possiamo seguire meglio gli sviluppi a partire del XII secolo, poiché molto di quanto fu prodotto del periodo medio-bizantino non è sopravvissuto. Comunque molto si può apprendere dalle rappresentazioni di icone nei manoscritti, da cronache sulle arti minori e dallo studio delle fonti letterarie. La capitale dell'Impero Romano d'Oriente era particolarmente devota alla Theotokos  e più di cento chiese vennero erette in suo onore. In esse si dovettero introdurre programmi iconografici nuovi, inventando delle composizioni che spesso servivano da prototipi per ulteriori icone: la Blachernitissa, la Hagiosoritissa, la Eleousa, la Episkepsis e la Platytera. Nel XII secolo l'icona acquisì le stesse qualità artistiche dei mosaici monumentali, dai quali era ovviamente influenzata: ciò si palesa per esempio nel portamento delle figure, che sono frontali, dai visi semplici

I contorni sono chiari e netti e il lineare è preferito al pittorico. Le tonalità di colore sono molto distinte, i colori netti in violento e vicendevole contrasto. In queste icone la figura umana è sempre il punto focale, mentre edifici e paesaggio hanno una funzione secondaria. L' aspetto umano caratteristico di queste icone è espresso meglio di tutto nella Vladimirskaya, l'icona che fu dipinta a Costantinopoli nel 1130 e successivamente trasferita in Russia - più precisamente nella città di Vladimir, da cui ha preso il nome – dove divenne l'oggetto di culto più venerato. La Vladimirskaya è forse l'icona mariana più conosciuta e amata, non solo in Russia ma in tutta la cristianità.  Questo periodo di splendore dell'arte bizantina subì una battuta d' arresto con la Quarta Crociata, nel 1204. Costantinopoli, dopo essere stata espugnata dai veneziani divenne la capitale del regno crociato noto come “Impero Latino” fino al 1261. La città venne terribilmente saccheggiata e cadde in una tale povertà che ogni produzione artistica fu resa impossibile.


Icona della Crocifissione, seconda meta’ del XIII sec., Atene, Grecia
Museo Bizantino e Cristiano


2.   Il periodo tardo-bizantino (1261 – 1453)

Nel 1261 Costantinopoli venne riconquistata dall' imperatore Michele VIII Paleologo, già sovrano dell'Impero di Nicea, l'enclave bizantina sopravvissuta alla Crociata. La sovranità fu riacquistata, ma si dovette constatare il lento indebolimento dell'Impero, un tempo lo stato più ricco e potente del bacino del Mediterraneo. In termini culturali vi era il timore che il ruolo di Costantinopoli fosse giunto al declino. Il periodo latino fu contrassegnato da una minima attività artistica, e gli artisti trovarono rifugio in zone limitrofe che fecero parte dell'Impero Bizantino quali la Macedonia, Creta e Cipro, in cui, pur rimanendo fedeli alla tradizione bizantina, diedero vita a delle scuole iconografiche locali. Verso il XIV secolo l'icona mobile su tavola ridivenne una delle più rappresentative forme d' arte, stilisticamente continuando a seguire le linee principali evolutive del mosaico monumentale, ed è perciò che le figure divennero più delicate e raffinate: l'icona era permeata da una evidente onda di umanità, di interesse alle emozioni umane. Già a partire dal XIII secolo vengono trattati temi più complessi: mentre nel periodo medio-bizantino gli artisti usavano limitarsi a figure isolate – Cristo, la Madre di Dio e i santi – adesso la composizione si estende con l'aggiunta di numerose figure alla scena principale.  Il numero dei temi aumentò rapidamente, in modo particolare con rappresentazioni del Nuovo Testamento. Un' altra inesauribile sorgente di ispirazione per gli artisti furono i vangeli apocrifi. L'icona prese a svilupparsi ulteriormente in oggetto di culto e venne considerata quasi un amuleto: non era certo un oggetto di questo mondo, poiché l'elemento divino sembrava dimorarvi. La sua essenza andava cercata nel soprannaturale e la sua apparenza esterna sembrava determinata da una realtà divina.

Bisanzio nel XIV secolo è un organismo statale ancora apparentemente splendido ma già incrinato. È assediata da tutte le parti dai nemici, privata, l'uno dopo l'altro, dei suoi territori, dilaniata dai dissensi politici e religiosi, fa gli ultimi tentativi per sopravvivere.  Resta da chiedersi come, in un momento così difficile della sua storia, abbia potuto sviluppare una tale attività culturale e artistica. Ma per quanto interessante sia l'arte bizantina di questo periodo, essa non è l'inizio del nuovo, ma ilo compimento del vecchio. Proprio come l'umanesimo paleologo essa volge lo sguardo al passato ed è irrimediabilmente condannata.

Nell' insieme, la pittura paleologa rappresenta uno stile unico per le sue premesse. Formatosi in un contesto metropolitano nell' ultimo terzo del XIII secolo, acquista una grande potenza espansiva nel secolo successivo, penetrando in ogni angolo dell'oriente cristiano, ma nonostante il suo carattere unitario, occorre sottolineare che nel suo sviluppo essa attraversa due differenti fasi stilistiche, una più pittorica e l'altra più grafica, quest' ultima tendente a una particolare forma di accademismo. Queste due fasi non si differenziano tuttavia a tal punto l'una dall' altra da impedire di parlare di pittura paleologa come di un organico insieme. La rende unitaria innanzitutto il superamento del monumentale. Le forme, prima generalizzate, divengono sempre più particolareggiate, fragili e leggere. L' insieme decorativo perde la sua monumentalità.

Gli affreschi, sostituendosi ai mosaici, ricopriranno d' ora in poi, interamente le pareti e le volte, mascherandone la funzione strutturale. Essi sono disposti a zone sovrapposte, formando fregi ininterrotti o una serie di differenti scene chiuse. Nelle chiese si ha l'impressione che le pareti siano decorate da un gran numero di icone staccate, ragion per cui la pittura di icone su tavola di legno ha nell' arte paleologa una posizione molto importante.

  Nelle icone, come negli affreschi, tutto è da adesso dinamico: i panneggi svolazzano, si accentua il gestire delle figure, i loro movimenti diventano assai più liberi, le forme architettoniche si ammassano dinamicamente l'una sull' altra, nelle quinte architettoniche prevalgono linee curve spezzate; larghissima applicazione trova il velum che incessantemente serpeggia. La forma umana e gli sfondi architettonici e paesaggistici si fondono in un unico ambiente, in una totalità funzionalmente condizionata, alla quale contribuisce non poco l'esattezza delle proporzioni.  Le figure sono più piccole, lo spazio aumenta di profondità, i lineamenti del viso divengono più delicati e l'espressione è meno severa. Non di rado gli episodi sacri assomigliano a scene di vita quotidiana, sono permeati di intimità e pervasi da un sentimentalismo tutto particolare. Anche la tavolozza si modifica: diventa più morbida, più dolce, più delicata. I colori preferiti sono il blu azzurro e il giallo verdastro. Benché la gamma cromatica divenga in genere più chiara, essa guadagna in unità tonale. In breve si afferma uno stile più sciolto, pittoresco, di tendenza umanistica; sarebbe tuttavia inesatto definirlo realistico. Come per il passato, esso mira al trascendentalismo e, come per il passato, l'iconografia conserva una forma rigidamente fissa, le figure sono sempre prive di peso e di volume, il chiaroscuro è sostituito dal modellato per mezzo dei colori, le costruzioni architettoniche continuano ad assomigliare a fantastiche quinte decorative; mancano gli interni che racchiudono le figure in un ambiente empirico e reale.  

Tuttavia con il XV secolo l'eleganza raffinata e la manifestazione emotiva portarono a una trasformazione di maniera. Le composizioni divennero più complesse, in particolare il paesaggio e l'architettura si trasformarono in cornici per la figura umana. Lo spazio come tale divenne parte specifica della composizione, nella quale l'ombra è bandita completamente, creando l'effetto di una illuminazione proveniente da tutte le direzioni. La caratteristica più importante dell'arte ortodossa consiste nel nell' applicazione della prospettiva “invertita” che produce una composizione a più lati: la rappresentazione non sembra affrontata da uno solo, ma da più punti focali, perciò contro le leggi fisiche dell'ottica, l'osservatore resta più direttamente coinvolto e, grazie alla prospettiva invertita, vede di più nella rappresentazione. Infatti la prospettiva lineare interrompe la visibilità di una serie di entità che diventano visibili mediante la prospettiva invertita: per esempio, con la prospettiva lineare un trono può essere visto da due lati, con quella invertita può essere vista da tre. Gli apocrifi sono testi, sia dell’ A.T che del N.T redatti dal II sec. Essi non fanno parte del Canone biblico per la loro incompletezza e tardività. Sant' Ireneo di Lione, nel suo libro “Contro le eresie” sostiene la canonicità esclusiva dei quattro Vangeli che ancora oggi leggiamo, e per contrasto condannava le sette gnostiche per i loro scritti “apocrifi”, cioè “segreti”. Marcello Craveri, I Vangeli Apocrifi, Torino, Einaudi, 1990,p.60. 


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