Le giurisdizioni territoriali e il Diritto Canonico

Nella Chiesa Antica, nel periodo seguente alla predicazione apostolica, non era chiarissimo il confine del territorio di competenza di un vescovo: in molte città i vescovi erano più di uno per la stessa cattedra e collaboravano per la gestione della provincia. Con la fine delle persecuzioni e l'appoggio imperiale alla Chiesa, la stessa ha potuto riorganizzarsi e formalizzare i compiti dei vescovi nelle giurisdizioni territoriali, assegnando un singolo episcopo per ogni sede metropolitana, creando i famosi "vescovi di campagna" per le zone rurali, e assegnando alle città storiche più importanti per la Cristianità il ruolo di patriarchi: Roma, Costantinopoli, Antiochia, Alessandria d'Egitto e, infine, Gerusalemme. Il sesto canone del Concilio di Nicea del 325 d.C. stabilisce "che si osservino le antiche consuetudini" nei riguardi dei poteri episcopali delle città di Roma, Alessandria e Antiochia, dando loro una grande preminenza su ampie aree dell'Impero. Gerusalemme fu innalzata al rango di patriarcato solamente nel IV Concilio Ecumenico. Da quando Roma si è separata ufficialmente dall'Ortodossia, nel 1054, Costantinopoli ha preso posto come seggio primaziale a titolo onorifico. 


Una delle Sinassi alla quale parteciparono tutti i rappresentanti delle Chiese Autocefale Ortodosse

Il Concilio Ecumenico II , tramite il canone 2, stabilisce:

I vescovi preposti ad una diocesi non si occupino delle chiese che sono fuori dei confini loro assegnati né le gettino nel disordine; ma, conforme ai canoni, il vescovo di Alessandria amministri solo ciò che riguarda l'Egitto, i vescovi dell'Oriente, solo l'oriente, salvi i privilegi della chiesa di Antiochia, contenuti nei canoni di Nicea; i vescovi della diocesi dell'Asia, amministrino solo l'Asia, quelli del Ponto, solo il Ponto, e quelli della Tracia, la Tracia. A meno che vengano chiamati, i vescovi non si rechino oltre i confini della propria diocesi, per qualche ordinazione e per qualche altro atto del loro ministero. Secondo le norme relative all'amministrazione delle diocesi, è chiaro che questioni riguardanti una provincia dovrà regolarle il sinodo della stessa provincia, secondo le direttive di Nicea. Quanto poi alle chiese di Dio fondate nelle regioni dei barbari, sarà bene che vengano governate secondo le consuetudini introdotte ai tempi dei nostri padri.

Il IV Concilio Ecumenico, con il canone 28, ha stabilito una prerogativa speciale per Costantinopoli: 

Seguendo in tutto le disposizioni dei santi padri, preso atto del canone [III] or ora letto, dei 150 vescovi cari a Dio, che sotto Teodosio il Grande, di pia memoria, allora imperatore si riunirono nella città imperiale di Costantinopoli, nuova Roma, stabiliamo anche noi e decretiamo le stesse cose riguardo ai privilegi della stessa santissima Chiesa di Costantinopoli, nuova Roma. Giustamente i padri concessero privilegi alla sede dell'antica Roma, perché la città era città imperiale. Per lo stesso motivo i 150 vescovi diletti da Dio concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l'imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell'antica città imperiale di Roma, eguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella. Di conseguenza, i soli metropoliti delle diocesi del Ponto, dell'Asia, della Tracia, ed inoltre i vescovi delle parti di queste diocesi poste in territorio barbaro saranno consacrati dalla sacratissima sede della santissima chiesa di Costantinopoli. E’ chiaro che ciascun metropolita delle diocesi sopraddette potrà, con i vescovi della sua provincia, ordinare i vescovi della sua provincia, come prescrivono i sacri canoni; e che i metropoliti delle diocesi che abbiamo sopra elencato, dovranno essere consacrati dall'arcivescovo di Costantinopoli, a condizione, naturalmente, che siano stati eletti con voti concordi, secondo l'uso, e presentati a lui.

Il canone parla di "territori barbari", che allora era considerata tutta la Terra non romanizzata: Costantinopoli riceveva dunque una vocazione missionaria che tuttavia non fu in grado di portare. Ancora oggi Costantinopoli ritiene di dover governare tutte le diocesi della Diaspora nonchè tutta l'Ortodossia ove già non sia presente una Chiesa Autocefala, basandosi sul canone 28 sopra citato. Il problema non è solamente organizzativo ed etnico, ma anche profondamente filosofico: siamo noi dunque dei "barbari"? Chi si prende dunque l'onere della evangelizzazione in territori ufficialmente non ortodossi, dove non c'è una Chiesa Autocefala? Viene generalmente considerato come un problema ecclesiologico il superamento dei confini giurisdizionali da parte di un patriarcato o di una Metropolia Autocefala " a danni " di un territorio di un'altra giurisdizione. In effetti il canone 13 del Sinodo di Antiochia prescrive che ogni vescovo si limiti alle sue competenze territoriali. Come giustificare dunque la presenza di una Chiesa fuori dal suo territorio canonico? 

Anticamente i confini di una Chiesa venivano decisi su base etnica (come l'Armenia, la Georgia, la Chiesa Gallese) oppure su base geografica (La Chiesa di Cipro, ad esempio, che esiste ancora oggi). Molte antiche Chiese Autocefale in realtà non erano tanto su base etnica, quanto su base geografica, come la Chiesa di Ohrid in Macedonia, alla quale facevano riferimento serbi, macedoni, greci del nord e tribù slave convertite che vivevano là già dal VIII secolo. Si deduce che, fondamentalmente, ogni Eparchia era considerata - e si considerava - come un organismo indipendente ma indissolubilmente legato a tutto il resto della Chiesa.  Dal XIX secolo in poi si è fatto coincidere i confini di una Chiesa con lo Stato nella quale esiste (Chiesa Romena, Chiesa Bulgara, etc.). Nella Diaspora si assiste a questo curioso fenomeno anti-canonico secondo il quale, in corrispondenza alle razze presenti, esistono tanti vescovi e chiese sul medesimo territorio poiché si serve la nazione / razza, e non più la Chiesa locale. A questo problema reale e oggettivo dal punto di vista ecclesiologico la Chiesa Ortodossa come pleroma non ha ancora trovato una soluzione. Lungi dal voler demonizzare questo processo di adattamento ad una nuova realtà, tuttavia crediamo che l'Ortodossia fuori dai paesi tradizionalmente ortodossi dovrebbe finalmente prendere in mano la situazione e generare, con un processo guidato, una serie di Chiese Locali, attraverso una serie di interventi pastorali che mirino alla cooperazione inter-ortodossa. 

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